mercoledì 27 aprile 2011

Cinepsicorecensione : Habemus Papam e Il discorso del Re

In un album del 2008, “Il mondo che vorrei”, Vasco Rossi cantava così : “e adesso che sono arrivato/ fin qui grazie ai miei sogni/ che cosa me ne faccio della realtà ? / adesso che non ho/ più le mie illusioni / che cosa me ne frega / della verità ? / adesso che ho capito /come va il mondo / che cosa me ne faccio della sincerità ?? / E adesso che tocca a me.. ??  / e adesso che tocca a me..” .
Ripensavo a questa canzone, ripercorrendo mentalmente le immagini di due film che recentemente ho visto. Diversi, per molti aspetti, ma anche con molti elementi in comune.
Sto parlando di “Habemus Papam”, di e con Nanni Moretti e Michel Piccoli . E poi anche di “Il discorso del re”, di Tom Hooper, con Colin Firth e Geoffrey Rush .
Due film che tra loro hanno certamente delle differenze di contenuto e di stile (il primo è verosimile, potremmo dire, il secondo è vero, almeno nell’accezione manzoniana; il primo è essenzialmente metaforico, il secondo descrizione di un personaggio realmente esistito in un momento storico preciso). E però.. e però.. proprio le parole del Vasco nazionale sembrano evidenziare l’elemento chiave che caratterizza questi due film. Quando arriva il momento della vita in cui semplicemente “tocca a me”.
Di questa cosa ne ho parlato anche anni fa, analizzando un quadro di Caravaggio che mi è particolarmente caro “La conversione di Matteo” a San Luigi dei Francesi, in Roma. Ricordo che il post si chiamava “La luce illumina te”.
Ecco, in qualche modo questi due film ripercorrono quell’argomento: l’assunzione di una responsabilità, la scelta non facile.


Partiamo col primo: “Habemus Papam”, di N. Moretti.
Intanto sto film piacerà a chi ama Moretti. Non è detto che chi non lo ama particolarmente come regista, certamente avrà in disgusto sto film, ma di certo conoscere il suo linguaggio aiuta non poco a comprendere il perché di alcuni passaggi e soprattutto la scelta finale del protagonista. Il film è da vedere. Probabilmente in alcuni passaggi può piacere di più o di meno, ma vale la pena di vederlo, quello è sicuro.
In sintesi la storia : muore Giovanni Paolo II, si aprono le votazioni per il nuovo Papa e in breve si comprende come sia un incarico che nessuno si sente in grado di poter assumere. La scelta ricade su un cardinale francese, tale Melville. Lui accoglie il compito dinnanzi agli altri cardinali ma, al momento di affacciarsi al balcone per salutare la folla, il terrore lo assale. Da qui si dipana una storia in cui ne accadranno di tutti i colori. Sarà chiamato uno psicanalista ipernarciso che non saprà far nulla per il neoPapa e lo invierà dalla exmoglie, psicanalista anche lei (Margherita Buy). Il Papa scapperà e girerà per la notte romana, cercando la solitudine in virtù della quale spera di riuscire a comprendere il popolo di fedeli che dovrebbe guidare, in un percorso che però sente troppo più forte di lui. Nel frattempo lo psicanalista Moretti, che per obbligo al segreto non può uscire dal Vaticano, organizzerà un campionato mondiale di pallavolo tra i cardinali di tutti i continenti, anche loro obbligati a stare lì sino a che il Papa non si affaccerà dal balcone di San Pietro per la benedizione ai fedeli, che formalmente chiude la fase di elezione. Taccio sul finale. Per alcuni è stato un cazzotto allo stomaco, per altri la giusta quadratura del cerchio. A mio avviso è un finale che ci può stare se si pensa al cinema di Moretti. I rimandi al suo cinema sono tanti. In un’altra occasione aveva fatto lo psicanalista, nel dolorosissimo “La stanza del figlio”. Anche lì c’era di mezzo un’attesa. E la morte e l’attesa erano centrali anche in “Caos calmo”, film non di Moretti, ma certamente morettiano. Anche in “Caos calmo” c’era la difficoltà del protagonista nell’assumere un ruolo, dopo esser diventato vedovo. C’era la rappresentazione di un essere umano che ritiene di dover stare in panchina per un pò, per capire se stesso, per comprendersi. Ma in quella panchina non ce lo fanno stare, perché continuamente vanno a ropergli le palle gli altri, con i loro problemi.
“Habemus Papam” parla di questo, usando la metafora, l’iperbole potremmo dire, di usare la figura del Papa. La scelta per eccellenza. Come tirarsi indietro ? Eppure ..
Ma “Habemus Papam” scorre per diversi piani di lettura. Una, quella più semplice (che come sempre ha scatenato polemiche diffuse e, a mio avviso, pretestuose), è quella delle difficoltà che vive attualmente la chiesa, il Vaticano, nel parlare la lingua dei popoli del 2000. Da questo punto di vista preferisco il discorso svolto da Moretti alcuni anni fa con “La messa è finita”, altro splendido film. Lo consiglio ai tanti che probabilmente non lo avranno visto.
Altra lettura è quella della critica, benevola, comica, manieristica, ai tanti “psicoqualcosa” che tempestano tv, giornali e media vari. Nello specifico sia Moretti che la Buy recitano la parte di psicanalisti. Il personaggio di Moretti è fissato con il suo essere “il migliore”, la Buy concentrata sul suo perenne diagnosticare a tutti i pazienti un “deficit di accudimento” nell’infanzia. In entrambi, ciò che più si nota, è una manifesta difficoltà ad ascoltare chi hanno davanti, nella  sua specifica originalità di persona unica e irripetibile, per passare subito ai discorsi che sono bravi a fare, alle “letture del mondo e del vivere” che sono abituati a compiere. La consuetudine a tradurre in breve tempo la persona in paziente (leggi “insieme di sintomi”). Un agire meccanico che li porta a fare con tutti la stessa cosa. Io personalmente mi sono chiesto cosa avrei mai fatto dinnanzi ad una situazione simile. Di certo avrei agito diversamente, ma non posso negare che inconsapevolmente avrei anche io una tendenza a tradurre subito la persona in paziente attraverso i soliti schemi che sono abituato ad utilizzare. Fa parte del lavoro, ma è comunque importante esserne consapevoli e non dimenticarci di chi abbiamo avanti nella fretta di farlo quadrare subito nei nostri schemi operativi.
Resta imperdibile la sequenza in cui Moretti si trova con i cardinali e gli descrive gli effetti degli psicofarmaci che assumono. Esilarante e inquietante al contempo. Come molti altri momenti del film, a partire dal torneo di pallavolo.
Esilarante ed inquietante è anche il gruppo teatrale a cui si avvicina il cardinale Melville mentre si trova da solo per le strade di Roma. E così, ricordando di quando da giovane anche lui voleva fare teatro. Il gruppo mette in scena Checov, “Il gabbiano”. La scelta non è casuale. Così come non è casuale che il protagonista si chiami Melville, come l’autore di “Moby Dick”.
Viene voglia di abbracciare Nanni Moretti solo per aver pensato ad un cardinale che si chiama così e preferirebbe recitare Checov piuttosto che diventare Papa.
Questo porta ad un altro piano di lettura di questo film, che mi ha molto interessato: l’esser attori, sulla scena, come sulla vita. Lì la metafora, la chiave psicologica del film, si fa seria e assume tutto il suo valore, la sua potenza evocativa. Quante volte dinnanzi a scelte difficili, a ruoli che sentiamo troppo grandi per noi, ad un vivere troppo distante da quelle che sentiamo sarebbero le nostre caratteristiche di persone, di esseri umani, quante volte la nostra decisione finale è quella di un sottometterci ad un pirandelliano recitare? La scelta di fare il folle ne “Il berretto a sonagli”, in “Enrico IV”. Recita, pantomima. Splendida, da questo punto di vista, è la figura della guardia svizzera, cui viene chiesto di simulare di essere il Papa, avendo una corporatura simile, facendosi vedere da dietro le tende allo scopo di rassicurare gli altri cardinali e i fedeli a San Pietro. Inizialmente confuso, il soldato poi godrà di tutto il suo egocentrismo nel simulare di essere addirittura il Papa, per poi comprendere di essere anche lui non più complice, bensì prigioniero, di un ruolo in una macchinazione.
Ma recita anche la Buy: pensa che i bambini non capiscano che ha un nuovo fidanzato, non sa come dirlo loro, non vuole dichiararlo nemmeno a se stessa e mente sulle telefonate che gli fa. Naturalmente i bambini capiscono ogni cosa.
Recitano i cardinali nel voler infondere coraggio a Melville quando ognuno di loro singolarmente aveva pregato di non essere lui il prescelto.
Recita Moretti, che si atteggia a primo della classe e si arrabbia quando il torneo di pallavolo viene sospeso all’improvviso.
Recitano tutti, mentono tutti, soprattutto a loro stessi. Per questo la risata si fa aspra: anche i momenti più comici (e sono tanti) acquistano tutto il loro sapore di amarezza nella scelta finale.
In tutti questi casi l’elemento metaforico descrive benissimo il rapporto complesso insito tra la scelta di un ruolo da assumere e la scelta del recitare nella vita. Non a caso, il più dolce e sincero di tutti (ma anche il più inquietante) sembra l’attore folle che vuole da solo recitare tutte le parti de “Il gabbiano” : l’apoteosi dell’ “Uno, nessuno e centomila”. L’unico che vorrebbe recitare sulle scene e forse alla fine sceglie di non farlo nella vita è proprio Melville.
Potrà apparire un Moretti pirandelliano, ma non credo sia così. E’ un Moretti che in tutto e per tutto porta avanti una sua poetica, un suo modo di fare cinema e raccontare le pieghe dell’essere umano. Lo fa da anni. Da anni lo fa bene !

Dopo un tale spropositato panegirico a Moretti e al morettismo come mi metto a parlare de “Il discorso del Re” ? Come fare a parlarne bene o male dopo che tutto il mondo ne ha già parlato oltremodo benissimamente bene ? Ma del resto perché mai parlarne male ? , ci sarebbe da chiedersi.
“Il discorso del Re” è un buon film, un gran buon film. Un film impeccabile si potrebbe dire, mentre ad esempio “Habemus Papam” impeccabile proprio non lo è. “Il discorso del Re” è girato con buon stile, talvolta un po’ calligrafico nelle passeggiate in mezzo alla nebbia nei giardini di Kensington.
Sinteticamente, il Duca di York, fratello minore dell’erede al trono, soffre di balbuzie. Ogni qual volta deve parlare in pubblico, ma anche con la sua stessa famiglia, si blocca. Un logopedista australiano (dunque un suddito delle colonie) lo aiuterà a trovare la forza della sua voce, e così anche la forza e il coraggio nell’esprimere se stesso nel momento in cui l’impero inglese ha bisogno di stringersi attorno al suo Re nel terrore dell’avvento di Hitler in Europa. Il duca diventerà re, trovando in se stesso il coraggio che una vita di piccole e grandi umiliazioni all’ombra di padre e fratello maggiore (e il dolore per la perdita del fratello minore) gli aveva sino ad allora negato. La metafora del bruco che diventa farfalla e con la sua riacquisita capacità di comunicare oralmente dà forza e fiducia non solo a se stesso, ma al mondo libero.
Chiunque è convinto che “pensare bene porti a parlare bene” (che poi non è detto sia sempre così, anzi.. ) , ma non sia così scontato che “parlare in modo nuovo porti a pensare in modo nuovo”, su di sé e sul mondo. Immagino che questo film in gran parte voglia dire proprio questo. Evolvere il proprio linguaggio aiuterà ad evolvere, aprire, liberare la propria personalità ? Viene da dire si, ma a che prezzo ! Per chi voglia saperne di più, Chomsky, Piaget e Vigotskji c’hanno scritto e teorizzato tantissimo e benissimo.
E anche qui c’è il senso dell’attesa, il conflitto tra “essere e non essere” (non a caso citato nel film), cioè il tema della scelta consapevole e dell’assunzione di ruoli davanti a sé, alla propria vita, al mondo stesso se vogliamo.
Gli attori sono tutti in parte. Colin Firth ha vinto un oscar ineccepibile nella sua balbuziente interpretazione di Giorgio VI. Chiunque lo vede doppiato in una lingua non inglese ha una spropositata curiosità di ascoltare l’originale per capire meglio il lavoro sulla voce e sul personaggio, svolto dall’attore britannico. Geoffrey Rush è bravo bravo bravo nel ruolo del logopedista. La “sempiternamente old england style” Helena Bonham Carter ha un ruolo che le calza benissimo (bhè è il ruolo di una vita, si potrebbe anche dire.. per chi come me la follemente amata in “Fight Club” è un dispiacere vederla sempre e comunque in film di ambientazione inglese antecedente gli anni ’40). Per quelle 3 o 4 apparizioni che ha, personalmente ho amato tantissimo Timothy Spall nel ruolo di Churchill. E poi c’è il rinato Guy Pearce (ma dove era finito negli ultimi 5 anni???) nel ruolo del fratello regnante, che abdicherà per amore ( o per circonvenzione d’incapace?.. bhè forse è lo stesso..). Insomma gli attori son tutti bravi.
La parte migliore è certamente quella data dalle sequenze di dialogo tra il futuro re e il logopedista. Non solo per la loro recitazione, per la tecnica recitativa che mettono in campo (perché comunque di questo si tratta, anche se meravigliosamente, ma questo sono il tartagliare di Firth e le smorfie di Rush, tecnica), ma per il modo in cui si relazionano, si confrontano, si sfidano, infine condividono.
Non saprei dire se questo film alla lunga sia un apologo della lotta interiore per liberare la nostra vera identità spesso incatenata dalle nostre paure, oppure sia un tributo alla forza della tecnica orale, dell’artifizio dinnanzi al pubblico. Magari ci stanno entrambe, magari il re ha una sua natura che a poco a poco farà emergere sempre più con coraggio, ma per farlo dovrà di tanto in tanto appoggiarsi all’artifizio, di quel tanto che basti affinché il secondo non prevalga comunque sulla prima.
Anche qui il nodo centrale è quello del recitare e quanto recitare, dello svelare se stessi e quanto farlo. Anche qui un personaggio grandioso prova timori comuni ed è metafora del nostro piccolo comune, talvolta quotidiano, talvolta no, chiederci “e adesso che tocca a me??” .

4 commenti:

  1. Habemus papam l'ho visto e mi è piaciuto moltissimo (a prescindere dal fatto che adoro Moretti e appena è uscito nelle sale mi sono scapicollata per vedere l'ultima sua fatica). Il finale mi ha stupito; credevo che alla fine Michel Piccoli avrebbe trovato la forza di prendere e di sostenere la carica. Evidentemente il deficit di accudimento richiede forse anche più di qualche giorno per essere elaborato... forse anche una vita ;)

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  2. del primo .. ke ci sia crisi nella chiesa è vero e moretti a quel ke racconti lo rappresenta.

    del secondo dici gli attori sn bravi ... .)))

    ciao a76 ! grazie
    v

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  3. ...allora...premetto che non ho visto i due film....ultimamente sto marinando molto il cinema, haimè...e me ne dispiace molto...
    poi ti dico che moretti non mi piace...che ci devo fà...lo trovo tremendamente noioso...anche se i suoi messaggi sono interessantie condivisibili...io mi addormento davanti ai suoi film...:-(

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