sabato 21 maggio 2011

The Tree of Life. CinePsicoRecensione

Non è semplice parlare di “The tree of life”, ultimo film di Terence Malick, con Brad Pitt e Sean Penn.  Probabilmente per provare a chiarire di cosa si tratta, per provare a descriverlo, dovremmo uscire dal termine “film” e parlare di un’opera d’arte complessa, forse anche complicata. Più “video arte”, che film. Una pellicola in cui la visione delle immagini ha un qualcosa di più complesso che va al di là del contenuto della trama e delle immagini stesse. E’ raro che ciò accada. Ricordo di averlo pensato solo in riferimento ad alcuni film di Greenaway e Kubrick.
Di fondo, il film tratta dei primi anni di vita di un ragazzino nella provincia americana. Molti ritengono sia una fantomatica biografia dello stesso Malick.. ma di Malick non si sa quasi nulla, quindi sono solo ipotesi lontane.. però molti lo sospettano. Il bambino cresce, diventa ragazzino, poi lo vedremo uomo (Sean Penn). Il suo percorso di sviluppo è segnato dal confronto continuo con una famiglia dominata da un padre che non definirei violento, ma dai modi certamente aggressivi, autoritari. La madre dolce, gentile, forse fin troppo dimessa. E altri due fratelli. Comprendiamo all’inizio del film che il fratello minore diventato ragazzo partirà in guerra (presumibilmente il Vietnam) e lì morirà. Questo sconvolgerà la famiglia.
Questa è in sintesi la trama, che in sé e per sé è molto semplice. Ma il centro del film non sta in questo, bensì nel modo in cui il regista lo propone. A Cannes è stato egualmente osannato come capolavoro assoluto e fischiato come pellicola abnormemente tediosa. Come al solito, penso la verità stia al centro, e comunque il fatto che il film divida secondo me è positivo, perché vuol dire che non è un film che si assume percettivamente e basta, ma spinge a pensare, a riflettere e a dare un giudizio.
Le critiche si concentrano soprattutto su di un versante : il film ha ritmi lenti. Ha ritmi molto lenti. E’ più contemplativo, che descrittivo o narrativo. Fenomenologico probabilmente. Una contemplazione dell’umano esistere, non troppo distante, del resto, da quanto aveva fatto con “La sottile linea rossa”. Questo è il suo stile, il suo cinema, il suo pensiero. La sua arte.
Il film è tutto giocato sulle immagini, sugli sguardi, sul non verbale. Lo sguardo che il bambino ha sul mondo e sui genitori. Lo sguardo che ha sulla natura e sul mondo. L’esperienza che lui fa di esse, ed in base a cui “legge” il mondo e la sua stessa vita. E noi leggiamo la sua, come abbiamo letto e leggiamo la nostra. Il bambino parla poco col padre e il padre insegna poco a parole al figlio: tutto è giocato su “quanto” e “come” i due si avvicinano e si ritraggono l’uno dall’altro, come convivono amandosi e odiandosi. Da questo punto di vista è un film che consiglierei ad un sacco di colleghi psicologi, soprattutto a chi si occupa di infanzia, di attaccamento, di sviluppo della personalità.
Ma non è solo l’esperienza di una vita, il percorso di un essere umano che conosce il suo mondo e se stesso, è qualcosa di più. Malick tenta un’impresa rischiosa, ma affascinante: riallacciare lo sviluppo della vita del bambino con lo sviluppo del mondo stesso. E’ ciò che gli psicologi evoluzionisti chiamano “il racchiudersi della filogenesi nell’ontogenesi”.. nel nostro percorso di crescita, nel modo in cui affrontiamo il mondo, fisicamente e psicologicamente, non c’è solo la nostra esperienza, ma millenni di esperienza dell’uomo. Millenni hanno plasmato la natura, il mondo, la civiltà. Millenni hanno contribuito a creare il cervello che adesso ci portiamo ognuno dentro di noi. Millenni hanno contribuito ad affinare la nostra mente, le nostre motivazioni di base.


Ed è lì nel confine tra il nostro sistema mente/corpo e il sistema mondo/universo, che Malick pone la domanda : seguire la Grazia o seguire la Natura ? Seguire cioè un simbolo materno, dato di dolcezza, comprensione, tenerezza, oppure seguire il simbolo paterno, dato di lotta cannibale, irruenza ma anche autoritarismo.
Parallelamente alla nascita del bambino vediamo il big bang. Parallelamente ai primi giochi sociali del bambino, vediamo dei dinosauri che si attaccano ed uno che riesce a sopravvivere solo perché si finge già morto. Sopravvivenza e assunzione di ruoli.
Per dire che “sopravvivenza” e “assunzione di ruoli” non sono solo dinamiche degli esseri umani contemporanei, ma sono qualcosa che è inscritto a fuoco dentro ognuno di noi per le esperienze di millenni.
In questo si vede più chiaramente il concetto di “Albero della vita”, che è un archetipo culturale, oltre che uno dei più celebri soggetti artistici. Torna alla mente nella sua bellezza il quadro di Klimt. La sostanziale differenza tra l’albero della vita come concetto darwiniano e l’albero della conoscenza biblico. Nel portale della Cattedrale di Palermo c’è un bassorilievo che lo rappresenta.
Ma stando al cinema, non mancano gli esempi, l’albero di “Forrest Gump” e quello di “Avatar”, in primis .
Quindi non solo il concetto di “vita” e di “forza naturale”, ma quello più complesso (perché carico di più sofferenza) di “crescita”.
Tutto questo è tradotto in immagini che sanno parlare sia il linguaggio della grandiosità e dello spettacolare, sia quello dell’intimo, del vivere soggettivo. Qualcosa che è difficile a dirsi a parole, figuriamoci a renderlo visivamente…! Basta vedere il passaggio dalla scena in cui il padre carezza per la prima volta i piedi del bambino appena nato, a quella in cui asteroidi colpiscono la terra e danno vita allo spostamento di masse terrestri ed all’inizio della vita senza i dinosauri.


Il delicato e il roccioso, il tenero e il violento, il sensuale e il rabbioso. La Grazia e la Natura.
L’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande. Forse è questo che ci si chiede nel film: l’infinitamente piccolo dell’umana esistenza e lì infinitamente grande dell’universo sono baciati dallo stesso respiro, sono frammenti di uno solo unico grande percorso. Se tutto ciò può portarci a non guardare più come il film descrive la vita, ma a chiederci noi stessi la vita che cosa sia, sulla base delle immagini del film.. bhè questo è solo un gigantesco merito del regista! Se poi qualcuno mentalmente si sposta dal concetto di vita a quello di Vita e di Dio, a prescindere dalla risposta che si darà, il merito è doppio.
L’infinitamente piccolo della natura e l’infinitamente grande dell’essere umano. Anche. Se vogliamo.
Il grande e il piccolo.
Questa è la Natura ed il mondo, spazi immensi sconfinati che ti fanno sentire tremendamente piccolo e nullo, ma anche piccole foglie dai colori lucenti, insetti minuscoli che in loro stessi racchiudono il tocco della vita unica e irripetibile.
E così è anche la vita dell’essere umano, tra momenti sorprendenti e piccoli impercettibili drammi che sembrano a tutti unici e sconosciuti. In questo senso la scena in cui il ragazzino passeggia di sera tornando a casa e osservando la gente che sta dentro ed urla cose da lontano incomprensibili, bhè.. è una scena straordinaria.
Chiedere allo spettatore di conciliare in un solo pensiero, in una sola visione, tutto questo non è certo semplice. Non credo nemmeno sia un discorso di capacità di comprendonio dello spettatore medio. E’ un film ambizioso e difficile, che tratta un argomento filosofico attraverso un linguaggio prettamente visivo. A mio avviso un linguaggio espressamente concreto, ma a qualcuno sembrerà mistico. A molti piacerà e a molti non piacerà, e penso sia normale e sia anche giusto. Non è un film fatto per piacere a tutti. E’ un’opera d’arte tanto grandiosa quanto intima per alcune brevi immagini, per alcune risonanze emotive che può procurare.
Il mio giudizio è che è un grande film, che descrive il rapporto figli-genitori con una delicatezza ed una potenza che raramente avevo visto. Basta vedere la locandina del film per capire cosa voglio dire. Per una volta, oltretutto, la locandina italiana è assolutamente superiore a quelle originali americane.
  
Il mio consiglio è di vederlo. Vederlo responsabilmente, come si suol dire, consapevoli che è lungo e dai ritmi lenti, quindi evitare l’ultimo spettacolo della giornata, dopocena. Però vederlo, ne vale assolutamente la pena. Raramente si era visto qualcosa del genere. Raramente se ne vedrà. 

mercoledì 27 aprile 2011

Cinepsicorecensione : Habemus Papam e Il discorso del Re

In un album del 2008, “Il mondo che vorrei”, Vasco Rossi cantava così : “e adesso che sono arrivato/ fin qui grazie ai miei sogni/ che cosa me ne faccio della realtà ? / adesso che non ho/ più le mie illusioni / che cosa me ne frega / della verità ? / adesso che ho capito /come va il mondo / che cosa me ne faccio della sincerità ?? / E adesso che tocca a me.. ??  / e adesso che tocca a me..” .
Ripensavo a questa canzone, ripercorrendo mentalmente le immagini di due film che recentemente ho visto. Diversi, per molti aspetti, ma anche con molti elementi in comune.
Sto parlando di “Habemus Papam”, di e con Nanni Moretti e Michel Piccoli . E poi anche di “Il discorso del re”, di Tom Hooper, con Colin Firth e Geoffrey Rush .
Due film che tra loro hanno certamente delle differenze di contenuto e di stile (il primo è verosimile, potremmo dire, il secondo è vero, almeno nell’accezione manzoniana; il primo è essenzialmente metaforico, il secondo descrizione di un personaggio realmente esistito in un momento storico preciso). E però.. e però.. proprio le parole del Vasco nazionale sembrano evidenziare l’elemento chiave che caratterizza questi due film. Quando arriva il momento della vita in cui semplicemente “tocca a me”.
Di questa cosa ne ho parlato anche anni fa, analizzando un quadro di Caravaggio che mi è particolarmente caro “La conversione di Matteo” a San Luigi dei Francesi, in Roma. Ricordo che il post si chiamava “La luce illumina te”.
Ecco, in qualche modo questi due film ripercorrono quell’argomento: l’assunzione di una responsabilità, la scelta non facile.


Partiamo col primo: “Habemus Papam”, di N. Moretti.
Intanto sto film piacerà a chi ama Moretti. Non è detto che chi non lo ama particolarmente come regista, certamente avrà in disgusto sto film, ma di certo conoscere il suo linguaggio aiuta non poco a comprendere il perché di alcuni passaggi e soprattutto la scelta finale del protagonista. Il film è da vedere. Probabilmente in alcuni passaggi può piacere di più o di meno, ma vale la pena di vederlo, quello è sicuro.
In sintesi la storia : muore Giovanni Paolo II, si aprono le votazioni per il nuovo Papa e in breve si comprende come sia un incarico che nessuno si sente in grado di poter assumere. La scelta ricade su un cardinale francese, tale Melville. Lui accoglie il compito dinnanzi agli altri cardinali ma, al momento di affacciarsi al balcone per salutare la folla, il terrore lo assale. Da qui si dipana una storia in cui ne accadranno di tutti i colori. Sarà chiamato uno psicanalista ipernarciso che non saprà far nulla per il neoPapa e lo invierà dalla exmoglie, psicanalista anche lei (Margherita Buy). Il Papa scapperà e girerà per la notte romana, cercando la solitudine in virtù della quale spera di riuscire a comprendere il popolo di fedeli che dovrebbe guidare, in un percorso che però sente troppo più forte di lui. Nel frattempo lo psicanalista Moretti, che per obbligo al segreto non può uscire dal Vaticano, organizzerà un campionato mondiale di pallavolo tra i cardinali di tutti i continenti, anche loro obbligati a stare lì sino a che il Papa non si affaccerà dal balcone di San Pietro per la benedizione ai fedeli, che formalmente chiude la fase di elezione. Taccio sul finale. Per alcuni è stato un cazzotto allo stomaco, per altri la giusta quadratura del cerchio. A mio avviso è un finale che ci può stare se si pensa al cinema di Moretti. I rimandi al suo cinema sono tanti. In un’altra occasione aveva fatto lo psicanalista, nel dolorosissimo “La stanza del figlio”. Anche lì c’era di mezzo un’attesa. E la morte e l’attesa erano centrali anche in “Caos calmo”, film non di Moretti, ma certamente morettiano. Anche in “Caos calmo” c’era la difficoltà del protagonista nell’assumere un ruolo, dopo esser diventato vedovo. C’era la rappresentazione di un essere umano che ritiene di dover stare in panchina per un pò, per capire se stesso, per comprendersi. Ma in quella panchina non ce lo fanno stare, perché continuamente vanno a ropergli le palle gli altri, con i loro problemi.
“Habemus Papam” parla di questo, usando la metafora, l’iperbole potremmo dire, di usare la figura del Papa. La scelta per eccellenza. Come tirarsi indietro ? Eppure ..
Ma “Habemus Papam” scorre per diversi piani di lettura. Una, quella più semplice (che come sempre ha scatenato polemiche diffuse e, a mio avviso, pretestuose), è quella delle difficoltà che vive attualmente la chiesa, il Vaticano, nel parlare la lingua dei popoli del 2000. Da questo punto di vista preferisco il discorso svolto da Moretti alcuni anni fa con “La messa è finita”, altro splendido film. Lo consiglio ai tanti che probabilmente non lo avranno visto.
Altra lettura è quella della critica, benevola, comica, manieristica, ai tanti “psicoqualcosa” che tempestano tv, giornali e media vari. Nello specifico sia Moretti che la Buy recitano la parte di psicanalisti. Il personaggio di Moretti è fissato con il suo essere “il migliore”, la Buy concentrata sul suo perenne diagnosticare a tutti i pazienti un “deficit di accudimento” nell’infanzia. In entrambi, ciò che più si nota, è una manifesta difficoltà ad ascoltare chi hanno davanti, nella  sua specifica originalità di persona unica e irripetibile, per passare subito ai discorsi che sono bravi a fare, alle “letture del mondo e del vivere” che sono abituati a compiere. La consuetudine a tradurre in breve tempo la persona in paziente (leggi “insieme di sintomi”). Un agire meccanico che li porta a fare con tutti la stessa cosa. Io personalmente mi sono chiesto cosa avrei mai fatto dinnanzi ad una situazione simile. Di certo avrei agito diversamente, ma non posso negare che inconsapevolmente avrei anche io una tendenza a tradurre subito la persona in paziente attraverso i soliti schemi che sono abituato ad utilizzare. Fa parte del lavoro, ma è comunque importante esserne consapevoli e non dimenticarci di chi abbiamo avanti nella fretta di farlo quadrare subito nei nostri schemi operativi.
Resta imperdibile la sequenza in cui Moretti si trova con i cardinali e gli descrive gli effetti degli psicofarmaci che assumono. Esilarante e inquietante al contempo. Come molti altri momenti del film, a partire dal torneo di pallavolo.
Esilarante ed inquietante è anche il gruppo teatrale a cui si avvicina il cardinale Melville mentre si trova da solo per le strade di Roma. E così, ricordando di quando da giovane anche lui voleva fare teatro. Il gruppo mette in scena Checov, “Il gabbiano”. La scelta non è casuale. Così come non è casuale che il protagonista si chiami Melville, come l’autore di “Moby Dick”.
Viene voglia di abbracciare Nanni Moretti solo per aver pensato ad un cardinale che si chiama così e preferirebbe recitare Checov piuttosto che diventare Papa.
Questo porta ad un altro piano di lettura di questo film, che mi ha molto interessato: l’esser attori, sulla scena, come sulla vita. Lì la metafora, la chiave psicologica del film, si fa seria e assume tutto il suo valore, la sua potenza evocativa. Quante volte dinnanzi a scelte difficili, a ruoli che sentiamo troppo grandi per noi, ad un vivere troppo distante da quelle che sentiamo sarebbero le nostre caratteristiche di persone, di esseri umani, quante volte la nostra decisione finale è quella di un sottometterci ad un pirandelliano recitare? La scelta di fare il folle ne “Il berretto a sonagli”, in “Enrico IV”. Recita, pantomima. Splendida, da questo punto di vista, è la figura della guardia svizzera, cui viene chiesto di simulare di essere il Papa, avendo una corporatura simile, facendosi vedere da dietro le tende allo scopo di rassicurare gli altri cardinali e i fedeli a San Pietro. Inizialmente confuso, il soldato poi godrà di tutto il suo egocentrismo nel simulare di essere addirittura il Papa, per poi comprendere di essere anche lui non più complice, bensì prigioniero, di un ruolo in una macchinazione.
Ma recita anche la Buy: pensa che i bambini non capiscano che ha un nuovo fidanzato, non sa come dirlo loro, non vuole dichiararlo nemmeno a se stessa e mente sulle telefonate che gli fa. Naturalmente i bambini capiscono ogni cosa.
Recitano i cardinali nel voler infondere coraggio a Melville quando ognuno di loro singolarmente aveva pregato di non essere lui il prescelto.
Recita Moretti, che si atteggia a primo della classe e si arrabbia quando il torneo di pallavolo viene sospeso all’improvviso.
Recitano tutti, mentono tutti, soprattutto a loro stessi. Per questo la risata si fa aspra: anche i momenti più comici (e sono tanti) acquistano tutto il loro sapore di amarezza nella scelta finale.
In tutti questi casi l’elemento metaforico descrive benissimo il rapporto complesso insito tra la scelta di un ruolo da assumere e la scelta del recitare nella vita. Non a caso, il più dolce e sincero di tutti (ma anche il più inquietante) sembra l’attore folle che vuole da solo recitare tutte le parti de “Il gabbiano” : l’apoteosi dell’ “Uno, nessuno e centomila”. L’unico che vorrebbe recitare sulle scene e forse alla fine sceglie di non farlo nella vita è proprio Melville.
Potrà apparire un Moretti pirandelliano, ma non credo sia così. E’ un Moretti che in tutto e per tutto porta avanti una sua poetica, un suo modo di fare cinema e raccontare le pieghe dell’essere umano. Lo fa da anni. Da anni lo fa bene !

Dopo un tale spropositato panegirico a Moretti e al morettismo come mi metto a parlare de “Il discorso del Re” ? Come fare a parlarne bene o male dopo che tutto il mondo ne ha già parlato oltremodo benissimamente bene ? Ma del resto perché mai parlarne male ? , ci sarebbe da chiedersi.
“Il discorso del Re” è un buon film, un gran buon film. Un film impeccabile si potrebbe dire, mentre ad esempio “Habemus Papam” impeccabile proprio non lo è. “Il discorso del Re” è girato con buon stile, talvolta un po’ calligrafico nelle passeggiate in mezzo alla nebbia nei giardini di Kensington.
Sinteticamente, il Duca di York, fratello minore dell’erede al trono, soffre di balbuzie. Ogni qual volta deve parlare in pubblico, ma anche con la sua stessa famiglia, si blocca. Un logopedista australiano (dunque un suddito delle colonie) lo aiuterà a trovare la forza della sua voce, e così anche la forza e il coraggio nell’esprimere se stesso nel momento in cui l’impero inglese ha bisogno di stringersi attorno al suo Re nel terrore dell’avvento di Hitler in Europa. Il duca diventerà re, trovando in se stesso il coraggio che una vita di piccole e grandi umiliazioni all’ombra di padre e fratello maggiore (e il dolore per la perdita del fratello minore) gli aveva sino ad allora negato. La metafora del bruco che diventa farfalla e con la sua riacquisita capacità di comunicare oralmente dà forza e fiducia non solo a se stesso, ma al mondo libero.
Chiunque è convinto che “pensare bene porti a parlare bene” (che poi non è detto sia sempre così, anzi.. ) , ma non sia così scontato che “parlare in modo nuovo porti a pensare in modo nuovo”, su di sé e sul mondo. Immagino che questo film in gran parte voglia dire proprio questo. Evolvere il proprio linguaggio aiuterà ad evolvere, aprire, liberare la propria personalità ? Viene da dire si, ma a che prezzo ! Per chi voglia saperne di più, Chomsky, Piaget e Vigotskji c’hanno scritto e teorizzato tantissimo e benissimo.
E anche qui c’è il senso dell’attesa, il conflitto tra “essere e non essere” (non a caso citato nel film), cioè il tema della scelta consapevole e dell’assunzione di ruoli davanti a sé, alla propria vita, al mondo stesso se vogliamo.
Gli attori sono tutti in parte. Colin Firth ha vinto un oscar ineccepibile nella sua balbuziente interpretazione di Giorgio VI. Chiunque lo vede doppiato in una lingua non inglese ha una spropositata curiosità di ascoltare l’originale per capire meglio il lavoro sulla voce e sul personaggio, svolto dall’attore britannico. Geoffrey Rush è bravo bravo bravo nel ruolo del logopedista. La “sempiternamente old england style” Helena Bonham Carter ha un ruolo che le calza benissimo (bhè è il ruolo di una vita, si potrebbe anche dire.. per chi come me la follemente amata in “Fight Club” è un dispiacere vederla sempre e comunque in film di ambientazione inglese antecedente gli anni ’40). Per quelle 3 o 4 apparizioni che ha, personalmente ho amato tantissimo Timothy Spall nel ruolo di Churchill. E poi c’è il rinato Guy Pearce (ma dove era finito negli ultimi 5 anni???) nel ruolo del fratello regnante, che abdicherà per amore ( o per circonvenzione d’incapace?.. bhè forse è lo stesso..). Insomma gli attori son tutti bravi.
La parte migliore è certamente quella data dalle sequenze di dialogo tra il futuro re e il logopedista. Non solo per la loro recitazione, per la tecnica recitativa che mettono in campo (perché comunque di questo si tratta, anche se meravigliosamente, ma questo sono il tartagliare di Firth e le smorfie di Rush, tecnica), ma per il modo in cui si relazionano, si confrontano, si sfidano, infine condividono.
Non saprei dire se questo film alla lunga sia un apologo della lotta interiore per liberare la nostra vera identità spesso incatenata dalle nostre paure, oppure sia un tributo alla forza della tecnica orale, dell’artifizio dinnanzi al pubblico. Magari ci stanno entrambe, magari il re ha una sua natura che a poco a poco farà emergere sempre più con coraggio, ma per farlo dovrà di tanto in tanto appoggiarsi all’artifizio, di quel tanto che basti affinché il secondo non prevalga comunque sulla prima.
Anche qui il nodo centrale è quello del recitare e quanto recitare, dello svelare se stessi e quanto farlo. Anche qui un personaggio grandioso prova timori comuni ed è metafora del nostro piccolo comune, talvolta quotidiano, talvolta no, chiederci “e adesso che tocca a me??” .

mercoledì 23 febbraio 2011

Quesito esistenziale.. bhè forse no.. forse è troppo.. ma già che ci siamo.. diciamo quesito e basta…

Stamattina una paziente mi faceva riflettere. Si parlava di come sta vivendo un momento tutto sommato positivo, di come la relazione sentimentale attuale sia discretamente soddisfacente e anche il lavoro. A 27 anni, per il 2011 non è poco.
E però non basta.
Non basta nella misura in cui non è stata mai bocciata, ha fatto l’università in tempi ragionevolmente celeri, ha trovato lavoro presto dopo un utile corso di formazione, ma non  basta ad avere quel piccolo o grande “brava” dalla madre che sente necessario. Quel piccolo o grande “sono fiera di te”, che non dovrebbe essere un timbro alla nostra autostima di esseri umani, però vuoi o no vuoi spesso capita che sia così. Se non è la madre è il padre, se non è il padre è il partner.. diciamo persone che sono significative per noi. Mettiamola così, che può apparire più ostico, ma in verità è più semplice e generico. Il fatto che persone importanti per noi ci dicano “sono fiera/o di te”. Ma quanto è tremendamente importante? Quanto lo è, anche se spesso costruiamo la nostra vita anarchica o perfezionista nello sforzo di dimostrare che così non è?
Che poi, una volta la madre della tale signorina ebbe pure modo di dirglielo, ma l’effetto non fu molto consolatorio, semmai vissuto come ulteriore sfida a fare di più.
“eppure.. sa dottore.. se un domani avessi una figlia come me.. non sarebbe poi male come figlia..” .
Che se può sembrare una frase capitale, messa così, lo è ancora di più se si pensa che fino a qualche mese fa riteneva assolutamente improbabile avere figli, visto che si riteneva una matta da catena di forza. Di fronte ad una frase così importante non è semplice capire cosa dire. La scelta che ho compiuto io è stata quella di rafforzare non tanto il contenuto della frase, quanto il fatto che da lei partisse una considerazione su se stessa non dovuta al giudizio che ritiene gli altri abbiano di lei. Ed una tale considerazione, scevra dall’altrui giudizio (che per lei è spesso fondamentale), aveva anche una forte componente emotiva e per questo era più delicata ma anche enormemente più preziosa e potente.
E poi come al solito ho giocato con lei ha poker. Cioè, le ho detto “la domanda che NON le faccio, ma su cui la invito a riflettere.. e che è l’altro lato della medaglia rispetto a questa sua importante affermazione è.. lei avrebbe piacere ad avere una figlia che le somiglia.. ma lei come madre ritiene che sarebbe quanto simile o diversa rispetto a come è stata sua madre?”.
Che può sembrare una cosa molto spigolosa da dire. Probabilmente lo è. Ma il fatto che io questa domanda la proponga, ma senza obbligare alla risposta, è un modo per fare riflettere su una cosa intensa dando anche la possibilità di proteggersi.
Lo so, è una cosa complicata, ma sono abituato a lavorare così. Dialogo come delle non domande. Le persone che vedo sono libere di non rispondere, ma sanno che la risposta non devono darla a me ma a loro stessi e se ci riescono è nel loro interesse.
La risposta che mi ha dato è stata interessante.
Nel senso che lei vorrebbe essere in futuro una persona autonoma, ma ritiene anche di avere assunto dei modi di essere di sua madre, dei modelli, degli schemi spesso del tutto automatici e spesso li mette in atto.
Questo la stava portando a vedersi male. E mi ha chiesto “ma io come faccio.. come faccio a capire se qualche volta sono io che faccio le cose, oppure mi sto comportando come farebbe mia madre? Per fare un esempio.. io sono disordinata.. ma l’altro giorno mi stavo arrabbiando con il mio fidanzato perché non aveva apparecchiato bene.. e nel farlo mi sono sentita come mia madre.. allora sono come lei ?”.
Bella domanda.
Quanto siamo noi e quanto siamo i nostri genitori? Quanto siamo noi e quanto siamo ciò che ci è stato tramandato, insegnato, obbligato e quanto altro? Non è facile. Non è facile soprattutto perché noi non siamo il territorio del Risiko, la mappa con i confini ben precisi. Non è mica che noi possiamo dire questo è un modo di essere mio.. poi da lì in poi c’è il padre che ho dentro.. poi là inizia la mamma.. e così via. Non è mica così la nostra bella testolina eheheheh.. eh no..
Ad una domanda così non puoi rispondere. O sennò puoi rispondere in modo molto semplice, dicendo che il problema non esiste, perché se le idee dei nostri genitori sono dentro di noi, allora sono comunque parte di noi. Quindi dentro di noi c’è solo un noi e basta. Con tutto quello che ci sta dentro.
Ma per quanto ciò possa essere una risposta ad un quesito ostico, solo questo non si può accettare. Io non lo accetterei. Perché pur essendo una risposta, non dà comunque una prospettiva.
Ed avere una prospettiva è fondamentale.
Un dubbio come quello si può sciogliere, secondo me, solo attraverso il porsi un’altra questione, che tutto sommato è quella che stava nel fondo e non veniva detta. Che è questa . Crescendo, avventurandoci in questo percorso frastagliato un po’ amaro e un po’ dolce che è la vita, è naturale che ci confrontiamo con altre persone, con loro e di loro facciamo esperienza e tutto questo ci entra dentro nel bene e nel male. Cose dei nostri genitori sono dentro di noi. Non lo si può evitare. Non credo neanche che sia da evitare in verità. E perché?, sono comunque insegnamenti. Il problema non è quanto degli altri ci sia in noi. Il quesito è : quanto io sono convinto che “un modo di essere di mio padre o mia madre che è in me” è immodificabile ? Quanto determinati modi fare appresi, quanto determinate emozioni automatiche, sono immutabili ?
Perché il problema sta là.
Non è quanto di mio padre/madre c’è in me. Ma quanto tutto ciò lo possiamo elaborare. Quanto tutto ciò lo possiamo usare in modo nuovo oppure possiamo metterlo da parte.
La vita ci può insegnare tante cose. Non è detto ci piacciano tutte. Le persone che incontriamo possono darci delle cose che nel bene e nel male facciamo nostre. Non sempre sono cose positive. Ma queste cose possono essere pietre e possono essere creta. Se sono pietre sono schemi fissi che non possiamo cambiare. Se sono creta, sono qualcosa di malleabile, che possiamo mutare di forma, adattandolo al modo in cui noi vogliamo per noi stessi la nostra vita. Che è l’unica che abbiamo.
Ma se certe cose, certi insegnamenti e modi di essere (con noi stessi, col mondo), sono pietre o creta, lo decidiamo noi, in buona parte. Lo determina la nostra volontà di dichiarare a noi stessi che siamo troppo curiosi per fermarci adesso.
Siamo troppo curiosi per fermarci ora. Abbiamo troppo voglia di scoprire chi saremo domani, chi possiamo essere domani. Perché possiamo essere, per davvero, un sacco di cose.
Musica !

lunedì 21 febbraio 2011

PsicoRecensione di "Il cigno nero"

Finalmente qualcosa di cui parlare, che non abbia a che fare con alcuno che si chiami Sivio, o Niki, o Ruby, o Sergio, o altro così.
Parliamo di cinema, che è meglio, che fa sempre bene! Glisso sul fenomeno Zalone, così come su “La Qualunque” che in modo più o meno naif trattano di questa ormai vituperanda società e mi fiondo sul film che ho visto ieri sera e mi è abbondantemente piaciuto. Diciamo che per un paio d’ore mi sono dimenticato dell’esistenza di Gheddafi, del Bunga bunga, della (non)ripresa economica e già questo fa tanto, già questo è un buon motivo per tirare fuori 7 euro e 50 di lacrime e sangue. E da luglio saranno 8,50, a quanto pare. (assurdo.. basta che per un paio di mesi la gente vada al cinema un po’ di più e subito alzano il prezzo.. sciacalli..) .
Ho visto “Il cigno nero”, di un regista sempre più bravo, benché dal nome quasi impronunciabile, Darren Aronofsky , con una Natalie Portman che verosimilmente svolazza senza ostacoli verso il primo premio Oscar della sua carriera. Carriera iniziata nel ’94, ancora ragazzinetta, al fianco di Jean Reno nel meraviglioso “Leon”, di Bessòn . Quanto era meravigliosa in quel film. Ma anche in questo non scherza mica. I suoi occhi, la sua mimica, i suoi piedi e le sue mani tengono lo spettatore inchiodato per 2 ore senza che lui si accorga del tempo che passa. Tra le sue dita e i suoi occhi scorrono tutte le emozioni possibili, dalla malinconia, alla gioia, alla sensualità, alla paura, alla rabbia, al dolore, all’orgasmo, allo stato di trance da droghe, alla follia. Tutto.
In sintesi, ma proprio in sintesi, la storia di una ballerina di un corpo di danza di New York, che diventa prima ballerina del gruppo e viene incaricata di interpretare la protagonista del “Lago dei cigni”, in una nuova versione, in cui dovrà non solo interpretare la limpida perfezione del cigno bianco, ma anche la sensuale malvagità del cigno nero.
Il tema del doppio, quindi.
Non è certo la prima volta che un tema del genere viene trattato. Il tappeto su cui tutto ciò si dipana è la solita competizione tra danzatrici alla ricerca della perfezione assoluta, naturalmente magre e perennemente a dieta, così come naturalmente figlie di genitori che in loro sperano per cambiare la loro esistenza, dimenticando i loro singoli fallimenti. Ballerine che chiaramente sono in perenne competizione tra loro, senza esclusione di colpi.
Già visto.
E più che si avvicina al trionfo personale, più che la protagonista perde la brocca. Per dirla facile. Non è nemmeno strano che ciò accada se si contempla il fatto che la madre è l’apoteosi del genitore intrusivo e soffocante, il coreografo con la scusa di fare emergere in lei la passionalità utile al personaggio ci prova in tutti i modi possibili e la ballerina rivale si diletta in saffiche effusioni con contorno di pasticche d’acido. Nel ruolo del coreografo, Vincent Cassell, nel ruolo della sua vita, cioè il gran bastardo. Una vita che fa sta parte. Per me basta il suo personaggio in “L’Odio”. Bastava quello. Mila Kounis nel ruolo della rivale. Winona Ryder in una particina da ballerina messa da parte e abbandonata da tutti, quando il suo tempo è ormai finito e sia il coreografo, sia la società, vogliono carne fresca. Tremendamente vicino alla vita di questa attrice. Peccato, era brava, a me è sempre piaciuta.
E anche qui siamo più o meno dalle parti del già veduto.

E allora perché vedere cose in qualche modo già viste?
Si potrebbe dire che cose già viste ma girate bene hanno un loro valore, ma sarebbe ingiusto. Il film non è soltanto ben girato, è meravigliosamente girato. Con dolcezza e crudeltà. Con una mano una carezza di poesia e lirismo, con un’altra una serie di pugnalate, di tagli, di ferite. Il corpo della protagonista ne è il simbolo: tenue, leggero, flessibile, ma anche piagato oggetto della sua stessa ferocia, delle mutilazioni che si (in)consapevolmente (?) si auto infligge. Se si guarda alla carriera di Aronofsky è facile fare 2+2 e dire che è appassionato delle potenzialità del corpo umano. Questo lo avvicina a Cronenberg, che però preferiva usare un registro più visionario per rappresentare il mondo interno ed esterno dei suoi personaggi, mentre Aronofsky da questo punto di vista è un deciso naturalista. Uno spietato naturalista. Prendi un personaggio, ponilo davanti ad un obiettivo che vorrà raggiungere costi quel che costi. Di mezzo ci sta il limitare tra perfezione e perfezionismo e la scelta individuale di pagare il prezzo più alto possibile pur di giungere alla perfezione, non comprendendo che si è dentro un vortice di perfezionismo autodistruttivo. Il perfezionismo può essere oltremodo distruttivo e il corpo è il primo a farne le spese. Dopo il Mickey Rourke di “The Wrestler”, la danzatrice Portman ne è il proseguire logico. Del resto, per molti anche il wrestling è una danza, o quantomeno una barocca, talvolta struggente, finzione. Un lago dei cigni muscolare.
Passione come pathos, come vero patire, che qui diventa follia.
Altro motivo per vedere questo film. Non svelo nulla se dico che la protagonista percorre una strada che la porta alla distruzione, innanzitutto psicologica. E il modo in cui tutto ciò viene descritto è molto interessante. Anche intrigante. Per chi vuole descrivere il disagio mentale grave, a livello psichiatrico, le scelte sono sempre due. Descrivere oggettivamente un personaggio che appare sempre più folle, incomprensibile, strampalato, e però in qualche modo per noi anche implicitamente rassicurante, proprio perché incomprensibile. Oppure, seconda scelta, tentare di riprendere lo sguardo soggettivo del protagonista su se stesso e sul mondo, tra delirio e realtà. E’ più complicato, più complesso, estremamente più rischioso, nella misura in cui lo spettatore può giungere a dei momenti in cui per davvero non si capisce più nulla. Ne “Il cigno nero”, succede almeno in un paio di occasioni. Le scene scorrono, la trama finisce e uno poi si chiede “ma quella cosa l’ha fatta per davvero oppure era un’allucinazione” ? Se oltre a tutto ciò si avverte anche un senso di disagio, di vago disturbo, se in qualche modo ci si percepisce perturbati, allora il film ha raggiunto lo scopo che voleva, cioè creare non solo confusione, ma anche disagio, lasciando lo spettatore nello stato di intima incertezza che aveva vissuto il protagonista della pellicola.
E così accade in questo film. La distruzione psicotica della protagonista viene vissuta dallo spettatore, che alla fine non si sente solo confuso, ma anche e soprattutto perturbato.
E questo mi fa un attimo riflettere. Allo spettatore di oggi non piace essere perturbato. Bhè forse non è piaciuto mai, in verità, però prima tutto ciò era vinto dalla curiosità. Ora no, si va al cinema per ridere, per sorridere, per riflettere, per piangere, per terrorizzarsi magari, per disgustarsi anche (vedi gli horror macelleria). Ma l’ipotesi di restare disorientati, intimamente sorpresi da una sensazione di disagio, ecco quello non lo si vuole proprio accettare. In molti si tappano gli occhi quando la protagonista, in modo allucinatorio (ma rappresentato con immagini assolutamente realistiche) si strappa pezzi di pelle. Vabbè ci può stare. Probabilmente se le tagliassero la testa la gente direbbe “bleah” ma non si coprirebbe gli occhi. Vedere dei piedi tumefatti dallo sforzo o la pelle strappata dalle dita fa più effetto. Ma c’è di più. In due occasioni la protagonista prova a masturbarsi per cercare di superare la sua ossessività e tornare a sentire in sé la passione, la vitalità, che le servirebbero per comprendere come fare al meglio il maligno cigno nero. E’ un modo di entrare in contatto con la propria corporeità, che ha insieme del dolce, del perverso, del doloroso. Di certo non sono scene goliardiche, né tantomeno gioconde. Bhè in entrambe le occasioni ho sentito la gente chiacchierare e ridacchiare. Non era mica Ben Stiller che si fa una pippa in “Tutti pazzi per Mary”, non c’era mica cameron Diaz che si metteva il famoso (non)gel per capelli. A modo loro erano anzi due sequenze disturbanti. Ma la gente non ha piacere ad essere disturbata; non ha nemmeno la curiosità di essere disturbata. E quindi si reagisce a tutto ciò ridacchiando. Si ridacchia perché sembra che rispetto alla masturbazione si può solo ridacchiare. O forse, che è peggio, perché dinnanzi a qualcosa che ci potrebbe disturbare è meglio se ridacchiamo e facciamo finta di niente.
“Il cigno nero” perturba senza schifare, disturba senza creare ribrezzo. E’ un thriller, per necessità di cose, ma non è un horror. Quantomeno non è l’Enigmista 10.
Il poster americano credo sia molto meglio di quello italiano. Rende molto meglio il discorso di fondo, in modo appunto molto più ambiguo e disturbante. La purezza del pallore del cigno bianco e gli occhi del cigno nero. Molto meglio del tipico viso in frantumi del poster italiano.  

Non a caso, un altro gran disturbatore, Jim Carrey, non si è fatto pregare e ha subito fatto una parodia del film, al Saturday Night Live, la si trova su youtube. Ma Carrey è un grande, sa bene quel che fa.
Poi si può dire che vuole parlare di tante cose, con tanti registri, inserendo tutti i possibili sintomi presenti in una manuale diagnostico di psichiatria. Su questo magari esagera. Però il percorso psichico che lega il comandamento della madre, alla disistima della figlia, al suo perfezionismo, al modo in cui agisce con e sul suo corpo e la rottura psicotica finale, è descritto benissimo e lucidamente. Il filo è descritto benissimo e rappresenta ottimamente una cosa che talvolta sfugge a molti psichiatri e psicologi: una struttura mentale ossessiva, per quanto deleteria sia, può anche essere una corazza protettiva che, se crolla, lascia il posto alla psicosi più infame. E prima di destrutturare l’ossessività di una paziente dovremmo stare ben attenti a capire cosa ci sta sotto e rinforzare ciò che togliamo con elementi positivi. Il fatto che visioni allucinatorie e reali diventino sul finire quasi del tutto indistinguibili, può anche essere eccessivo, ma è ciò che succede quando si disgrega un’unità psichica, quindi ci sta. Aronofsky lo fa dignitosamente, senza mai eccedere in effetti speciali. L’unica concessione effettosa che si fa è quando la ballerina danza la parte del cigno nero, con le piume del cigno che escono dalla pelle mentre danza, ed è poesia pura. Per il resto il regista ha uno sguardo da puro umile osservatore. Da naturalista. E infatti si parla di cigni. Bianchi e neri.
Dentro un corpo solo.