“Nominativo?”
“Santalepre
Concetto”.
“Saltalepre?”
“No
no.. Sann.. Sa..nn..talepre..”
“Tutto attaccato Santalepre?”
“Si
tutto attaccato”
Questo,
è quanto accadeva in un giorno sperduto e vispo del lontano Febbraio del 1989,
all’ufficio anagrafico per i nuovi esercizi commerciali del comune di Belforte,
dove Concetto Santalepre si recò a dare “giusto battesimo” alla sua nuova
pasticceria.
Rigoglioso
mese, quel Febbraio 1989, pregno di segni propiziatori di buona speranza: benché
Khomeini avesse messo al bando l’ultimo romanzo di Salman Rushdie e molti
italiani fossero purtroppo morti in un incidente aereo nei tropici, pur
tuttavia in Paraguay era finita la dittatura di Stroessner e in Sudan un gruppo
di archeologi italiani aveva scoperto gli antichi resti di un prezioso
insediamento, che una volta era tutto d’oro, ma che ora d’oro aveva solo il
nome.
E
soprattutto Fausto Leali e Anna Oxa avevano vinto Sanremo con “Ti lascerò”.
Concetto
Santalepre, per gli amici Ciccino, aveva pensato che quello fosse il momento
giusto, da un punto di vista cosmico, per dare battesimo al negozio di
pasticceria che era sempre stato un mai realizzato sogno paterno.
Quello
era proprio il momento giusto.
E
così nel Febbraio del 1989 aveva aperto la saracinesca del piccolo ma
voluttuoso negozio “Dolce Concetto”. Una pasticceria in cui essere serviti in
modo attento e garbato, che agli occhi di Concetto era la vetta piramidale di
un’autostrada di sogni che viveva da generazioni e generazioni, ma che mai si
erano concretizzati e finalmente vedevano manifesta conformazione in quel
piccolo delicato angolo di Belforte.
E
quando si dice generazioni, si vuol dire generazioni. Discendenze di maschi
Santalepre, che di volta in volta, per un motivo o per l’altro, si erano
ammogliati a donne maestre nell’arte pasticciera.
Il
nonno di Concetto, che pure lui di nome faceva Concetto, ad esempio, era stato
militare nella Prima Guerra Mondiale, partecipando nel Giugno del 1917 alla
terrificante battaglia per la presa del Monte Ortigara, contro gli austriaci.
Incredibilmente ne era rimasto vivo, sebbene privato di entrambe le mani. E
tornato da quell’abominio una cosa sola aveva saputo dire sempre a coloro che
gli chiedevano come avesse fatto a sopravvivere alle cannonate, alla neve, alla
perdita della prima mano e poi della seconda, “avevo troppo desiderio di
mangiare ancora un volta, un’ultima volta, la cotognata di mia moglie”. Che era
una signora cotognata!
Il
padre di Concetto figlio, nonché figlio di Concetto nonno, tal Cosimo
Santalepre, dal canto suo, aveva sempre sperato di poter tramutare in guadagno
economico la maestria dolciaria della moglie che tanto beneficio portava allo
splendore dei pranzi domenicali. Ma niente. La brava donna non si era mai
lasciata tentare dal dio denaro, convinta com’era, che nelle sue mani così
sapienti in gastronomia, scorresse principalmente un’energia divina, un dono
mistico, una magia celeste, che non era giusto tramutare in soldo. E tanto era
convinta di questo, che aveva pure smesso di toccare i soldi, per non
insozzarsi le dita, che sennò smettevano di essere il tramite creativo tra la
sua essenza e la sua arte . Di più, col tempo si era convinta che se mai una
donna Santalepre avesse unito l’arte al commercio, sarebbe incorsa in rapida
sventura. E questo, a dirla tutta, non aveva molto aiutato la scelta del
partner da parte del figliuolo, che si era sempre percepito come diviso tra due
intense correnti marine contrapposte. Ma alla fine, era riuscito a trovare la
chiave di volta per risolvere la situazione, senza deludere nessuno.
Il
buon Ciccino, così chiamato per venir
distinto dall’eroico nonno, aveva probabilmente ereditato dal padre il sogno di
fare soldi con i dolci, e dalla madre la passione per le energie astrali, che
orientano i destini e le fortune. E sentiva che in quel negozio si manifestava
un intento generazionale. Il nome “Dolce Concetto”, proveniva proprio da questo
sentimento che per decenni aveva attraversato i Santalepre. Diversamente dai
suoi predecessori, egli non si era accasato con una donna dalle grandi doti
culinarie, a dirla tutta, ma in compenso la signora Agostina aveva il
bernoccolo per i numeri: brava, bravissima a fare conti su merci in entrata e
prodotti in uscita, IVA, IRPEF e tutto quanto. E c’era di più, Agostina aveva
una sorella, Filomena, abbastanza bruttarella, che non era mai riuscita a
trovare marito e aveva, lei si!, il dono della cucina. In breve, la sorella era
entrata a far parte della famiglia, e Concetto aveva pensato che quella fosse
la condizione perfetta, per far si che il sogno familiare si concretizzasse,
visto che Filomena era parte della famiglia, ma non era moglie, dunque poteva
fare i dolci, senza che il commercio lenisse la sua creatività, ed in più c’era
Agostina che avrebbe tenuto i conti. A Concetto spettava di tenere unita a sé
la clientela. Nel corso degli anni, questo triangolo aveva avuto successo,
perché Agostina teneva i bilanci alla perfezione, Filomena s’inventava ogni
mese nuove sgolosanti meraviglie e Ciccino aveva trasformato il “Dolce Concetto”
in un luogo in cui non solo degustare e comperare, ma anche fermarsi per una
“dolce sosta”, chiacchierando con un titolare sempre pronto all’ascolto ed al
buon consiglio.
Tra
alti e bassi, il “Dolce Concetto” aveva tenuto botta per la bellezza di 23 anni,
affrontando crisi economiche, mucche pazze e pure l’apertura di un centro di
riferimento regionale per la cura del
diabete nella grande città poco distante.
Fino
alla morìa del 2012, quando era arrivata la disgrazia.
Sul
finire del 2011, la figlia Lucilla, nata come la pasticceria nel fortunoso 1989
(per l’esattezza, 9 mesi dopo l’apertura della pasticceria), aveva chiesto
sostegno ai genitori per aprire in paese un piccolo negozio di abbigliamento,
principalmente intimo e costumi da mare. Concetto all’inizio era rimasto un po’
perplesso, ma si era lasciato convincere da Agostina, la quale sapeva bene che
la figlia aveva ereditato da lei la capacità di tenere sott’occhio le spese e
dal padre la proverbiale socievolezza. Del resto, pensava Concetto, l’arte del
commercio, come quella della chiacchiera, era una dote antica dei Santalepre,
se è vero che il cognome derivava, a quanto storicamente tramandato, da un
verso della commedia teatrale “Il Filosofo”, scritta nel XV secolo da Pietro
Aretino: “Le grazie di santa lepre son le mie tu quinci, la quale nel
romperglisi de la spalla, levava le palme al cielo, poi che non aveva fiaccato
il collo”. Questo verso stava nel mezzo di un colloquio
tra un commerciante e una banda di ladri che lo invitavano a entrare nella loro
banda, sostenendo che commercio e brigantaggio sono eguali. E questo verso
veniva sempre ripreso da Concetto, per sostenere che l’etica professionale ed
una morale incorruttibile erano sempre stati il primo augusteo parametro di
riferimento della carriera sua e dei Santalepre nel suo complesso. Il dubbio
sul fatto che esistesse un reale legame tra il suddetto cognome e la suddetta
commedia era sempre persistito, in verità, ma Concetto ne aveva sempre
sostenuto la veridicità e la volontà filiale di aprire un nuovo diverso
esercizio di bottega era sembrato un momento in cui tenere fede all’antico
dettame: per cui meglio commercianti ambiziosi ma onesti, che ladri!
Il
negozio di Lucilla era partito
inizialmente un po’ come sempre succede: tante spese e pochi guadagni.
Oltretutto (Concetto lo pensava ma non si sognava di dirlo) l’apertura si era
venuta a concretizzare in un periodo astrale non proprio fausto, a causa di
alcuni contrattempi che ne avevano ritardato l’avvio oltre il mese che lui
aveva consigliato.
A
ciò si aggiungeva un altro ostacolo. Per quanto egli fosse stato sempre padre
disponibile al dialogo con la figlia, tuttavia stavolta si trovava a trattare
un argomento che aveva vergogna ad affrontare: le mutande da donna. Non che non
fosse accaduto che clienti della pasticceria gli avessero parlato di problemi
sentimentali: era accaduto in più occasioni, certo. Ma parlare di intimo
femminile con la figlia lo inquietava non poco. Quando andava a trovare la
figlia al negozio si faceva forza per non imbarazzarsi, cercando di trattare
l’argomento come “pura merce da vendere e niente altro”, ma sentiva che ad un
certo punto le guance iniziavano a bruciargli e doveva trovare una scusa
gentile per salutare la figlia ed allontanarsi.
La
tattica paterna allora, si era concretizzata in un continuo tentativo di
carpire informazioni dalla moglie, la quale, diversamente da lui, andava spesso
al negozio della figlia. Raramente aveva
cercato di sapere qualcosa anche dalla cognata, ma sapeva di poterci fare poco
affidamento, in quanto lei, bruttarella com’era, si teneva poco in
considerazione sotto l’aspetto fisico, e non frequentava negozi di vestiti,
figurarsi quelli di intimo! Onde per cui, il più delle volte chiedeva alla
moglie, la quale da par suo gli rispondeva “ma scusa tanto.. ma perché non ci
vai più spesso a trovare tua figlia in negozio? Non ci vai mai! Magari ha
bisogno di te!”. Concetto, con un senso di colpa che gli intorpidiva
all’istante i bei guanciotti cicciottosi, solitamente incassava e si
riprometteva di andare più spesso la figlia. E poi non lo faceva.
E
fino alla metà di Marzo 2012 era andata così.
Poi,
la svolta.
Un
bel giorno, Lucilla, nel corso della pausa pranzo, aveva dato il grande
annuncio.
“Ho
svoltato! Stavolta ho svoltato!”.
“Che
ci fu?”, aveva risposto la madre,
versandole la pasta con i frutti di mare nel piatto.
“Grandi
cose! Ho stretto un contratto con una ditta di Milano. Fanno costumi
meravigliosi!”.
“Di
Milano?”, aveva risposto il padre.
“Si,
di Milano. Bellissimi papà”.
Costumi,
costumi da mare. Bellissimi costumi da mare. La zia Filomena, in silenzio,
ascoltava attenta guardando il piatto. Le sue orecchie erano attraversate da
quelle semplici parole, che in breve avevano attivato la sua silente fantasia.
Costumi da mare bellissimi. In silenzio fissava il piatto di pasta: per un
istante le sembrò che gli spaghetti iniziassero ad ondeggiare vagamente.
“Ma
a Milano li sanno fare i costumi?”, aveva detto candidamente Concetto.
“Ma
me lo spieghi che domanda è???”, aveva subito risposto inferocita Agostina.
“Cioè..-
aveva detto Concetto diventando arancione- è solo una domanda.. Mica c’è
bisogno ti scaldi così..”
“Qual
è il tuo dubbio papà?”
La
discussione s’accendeva e Filomena nel frattempo osservava il suo piatto: tra
un gamberetto e una vongola intravedeva se stessa nella spiaggia: i capelli
sciolti, la pelle ambrata, un bikini verde. Verde smeraldo. Il colore della
sensualità.
“Mi
chiedo solo che cosa ne possano mai sapere i milanesi di costumi da mare, visto
che mare e spiagge non ne hanno… tutto qui..”.
“Ah..
– disse, pietrificandosi, Agostina- Tu ti chiedi che ne sanno a Milano di
costumi, visto che non hanno il mare”
“si…”,
fece Concetto, sentendosi sempre più piccolo.
Poi
fu il silenzio. Agostina e Lucilla si sentirono improvvisamente avvinte da un
senso di impotenza.
Filomena, assente ai
suoni e alle asprezze, sprofondava nei sogni di bikini che si erano aperti tra
le vongole. La scena era sempre più definita. Il sole vagamente al tramonto e lei,
splendente tra gli spaghetti, coglieva l’ultimo sole come una novella Calipso.
“Vedi
papà..”, fece per dire Lucilla, non potendo però proseguire perché Agostina già
sbottava, pallida verdognola in viso, con la mani sui fianchi: “MA IO CHI HO
SPOSATO ???? MA CHI SEI TUUUUU ?????”
Calipso
come squarciata da un doloroso lampo di realtà, ritornò alla sua essenza di
Filomena la bruttarella con i capelli col tuppo.
“Papà…
anche se i milanesi non hanno il mare.. vabbè..
comunque lo conoscono.. l’hanno visto nella vita almeno una volta, ti
pare ?”, provò a rabberciare Lucilla.
"E
IN OGNI CASO I BIKINI MICA LI CUCIONO I PESCATORI ! ”, urlò Agostina.
“Io
vendo dolci, ma il latte e le mandorle e tutto il resto lo conosco!”
“MA
CHE VENDI TU ?? PASSI TUTTO IL GIORNO A PARLARE CON LE PERSONE ! PARLASSI DI
MENO E VENDESSI DI PIU’ !”
Insomma
figura di merda.
Lucilla
lo guardava con la tenerezza di una figlia che sa che il padre ha lavorato
tutta la vita con costanza e dedizione per darle la possibilità di costruirsi
un futuro.
“E
come sono questi costumi?”, si provò a dire Concetto.
“Bellissimi!
Ho già visto il catalogo e ne ho ordinati alcuni. A breve me li inviano”.
E
così accadde. Nel giro di 10 giorni arrivarono i costumi e soprattutto
arrivarono i manifesti pubblicitari della nuova linea, che furono affissi nelle
strade principali di Belforte. Giovani modelle, dai lunghi capelli e dalle
forme perfette sfoggiavano su spiagge assolate, bikini di arcobalenica natura,
che le rendevano simili ad irraggiungibili dee.
Da
lì in poi iniziò l’ecatombe. Il dramma inatteso e funesto.
Le
signore del paese iniziarono, prima alla spicciolata, poi sempre più spavalde
ed accanite, ad andare al negozio di Lucilla, per provare questi costumi.
Tutte
innamorate di questi bikini.
Tutte
desiderose di indossarli.
Tutte
pronte a provarli nel camerino del negozio di Lucilla, che cominciò ad
ipotizzare di dover comprare un semaforo per dare ordine alla fila che si
creava.
Tutte
decise ad entrare in quei costumi.
Tutte
decise a fare sacrifici pur di entrare in quei costumi, costi quel che costi.
E
tanto più le donne andavano da Lucilla per i costumi, tanto più si convincevano
di dover dimagrire, tanto più smettevano di andare a comprare i dolci da
Concetto ed obbligavano i mariti a fare lo stesso.
Ad
inizio Giugno il negozio di Lucilla era pieno e la pasticceria di Concetto era
vuoto, come mai accaduto prima.
(continua…)
Gli altri racconti ambientati a Belforte :
- La fiaba di Equinozio Falsomiele
http://disordinatamente.blog.tiscali.it/2008/10/02/le_cronache_di_belforte__la_fiaba_di_equinozio_falsomiele__1932214-shtml/
- La fiaba di Nicolino Tagliavia
http://disordinatamente.blog.tiscali.it/2008/10/10/le_cronache_di_belforte__la_fiaba_di_nicolino_tagliavia_1934311-shtml/?doing_wp_cron